Mancano appena due ore all’apertura della segreteria a Tor Vergata. Confidando nella mia lungimiranza, ho giocato d’anticipo per fregare tutte le matricole, ma la macchinetta eroga numeri ha fregato me: inizierà a funzionare solo mezz’ora prima dell’apertura. Mi concedo allora un giro turistico in questo ateneo per me semi sconosciuto, dove sotto la pioggia, gli studenti trascinano i piedi in perfetto stile “the walking dead”. Ecco, mi sembra un parco giochi abbandonato, così lontano dalla frenesia e dal caos della Sapienza, dalle facoltà abbrutite dal passaggio di decenni di studenti, ammassate intorno alla statua della Minerva che se la guardi negli occhi prima di laurearti porta sfiga e non ti laurei più.
Mi avvio di fronte all’edificio B di Lettere, dove si sta tenendo un cenacolo di professori che incarnano il perfetto clichè dell’intellettuale di sinistra: basco, occhiali alla John Lennon, pantaloni di velluto marroni o senape , giacca di velluto in tinta, gilet. Il prof col papillon è decisamente avanti, secondo me è del DAMS. Per carità, nessuna cravatta, simbolo del capitalismo postmoderno e di un potere reazionario che manipola la facoltà di discernere dell’individuo neo realista che soccombe all’iperuranio simbolico di tesi antitesi sintesi senza tuttavia riuscire ad uscire dall’impasse nichilista della società liquida baumaniana. Così, per citare tutte le parole a caso che ho captato nei 40 secondi in cui attraversavo il gruppo di quelle menti illuminate. Per scrupolo torno alla macchinetta e lei mi sputa il numero 67…..67????Ma mancano 40 minuti all’apertura, è una congiura contro di me, penso. Come un pugno nello stomaco mi tornano alla mente le file interminabili alla Sapienza, quelle sofferte file lunghe quattro ore solo per prendere la rata per l’iscrizione, e sono quasi sopraffatta da un conato di vomito.
Per ammazzare l’attesa mi ficco in un’aula semi deserta a leggere l’Eneide, ma subito un gruppo di ragazzi entra ridendo con la sguaiatezza della Carrà e si piazza sulla cattedra buttando i libri aperti sul tavolo vergine, togliendomi subito il gusto del racconto di Enea a Didone riguardo le sue peripezie troiane. La fichetta di turno si rifà il trucco, quello accanto la guarda con la bava alla bocca, il tipo a destra ascolta la musica fingendo di leggere e quella a sinistra chatta con il pollice opponibile impazzito. E, ad un tratto, ho l’illuminazione: negli atenei romani tutti i ragazzi si trasformano in esseri primitivi, accomunati dall’unico desiderio di non fare assolutamente un cazzo.E così chiudo il mio libro e mi incanto a guardare la loro beata ignoranza fino a che, in un sussulto, mi accorgo che forse è tempo di andare in segreteria. È così che scopro con orrore che l’eliminacode bastardo mi ha giocato un brutto scherzo: siamo già al numero 80. Mi avvicino timida ad una ragazza e le dico che il mio turno è passato, cercando di suscitare in lei una qualche pietà. ” Non si preoccupi, la faccio passare avanti se vuole”, mi dice, guardandomi come se fossi sua nonna. “Abbella, ho capito che non mi sono ancora rifatta la tinta e la ricrescita bianca è palese, ma quanti anni mi dai, scusa?” Mi verrebbe da chiederle. E invece faccio pippa, approfittando della sua misericordia e pensando che, in fondo, la mia gavetta all’università l’ho già fatta. Adesso mi godo la pensione.