Vacanze Romane, ovvero Roadhouse Taxi Blues

Violentata da un caldo africano, aspetto da un’ora la mia amica eufemisticamente ritardataria, sotto l’illusorio riparo di una anoressica striscia d’ombra. Indosso una T-Shirt con la faccia di Jim Morrison impressa sulla bandiera inglese, in ricordo del concerto londinese del 1968. Ho scelto proprio questa per puro spirito di ribellione adolescenziale (fuori tempo) verso la fauna vip che popolerà la location chic che sto per visitare: l’Ambasciata brasiliana a Piazza Navona, meraviglia della Roma barocca.

Dopo una sudata lunga mezz’ora eccola che compare, nella sua abbagliante abbronzatura, l’incontrastata Regina del Ritardo dal lontano 2005, anno in cui venne incoronata sovrana dopo un ritardo record di un’ora e mezza.

“Siamo in ritardo”, mi dice trafelata, usando senza nessuna vergogna la 1° persona plurale, “prendiamo un taxi?” e, senza attendere risposta, alza un braccio verso una macchina gialla che inchioda prontamente di fronte a noi. Lui, il tassista, ha un sorriso inebetito e mi fissa al di sotto della faccia, invece di perdersi nella scollatura procace della mia amica, mentre con gesto vigoroso ci fa segno di salire in macchina.

“A Signorì, ho fatto uno strappo alla regola” fa con un pesante accento romano, “Dovevo caricà du vecchi francesi, ma quanno ho visto sta majetta che c’aveva bisogno der taxi, me so dovuto fermà pe forza!” Io e Miss Amica lo guardiamo basite mentre lui mette la prima e incalza: “Ahò, I Doors! Io sò malato pè Jim, c’ho pure un gruppo cover, se chiama I Rodaus. Io canto eh? C’assomigliavo pure a Jim…mò nun me vedete così, ma quanno c’avevo i capelli…” e sorride, sfrecciando nel traffico romano, lasciando intravedere un dente di meno nell’arcata superiore e mancando per poco un ignaro ciclista.

Per quanto mi sforzi di immaginarlo, questo qua assomiglia a Jim Morrison come io a Marilyn Monroe, ma ricambio il suo sorriso sdentato con uno di circostanza. “Aspè aspè, senti questa…” E dallo stereo partono le celeberrime note di Roadhouse Blues, che invadono la macchina ed escono prepotentemente sulla strada, che il nostro tassista percorre oltrepassando ampiamente i limiti di velocità, alternando le parole della canzone a bestemmioni urlati contro pedoni che cercano di attraversare sulle strisce.

E’ pure stonato, il pelatone. “Ma lo sapete che dice sta canzone? Sto pezzo parla del lavoro mio, er tassista! O sai l’inglese?”, mi dice in tono di sfida mentre recita il testo “Kip yor ais on the rod yor end apon the uiiilll! O sai chevvordì?” E, molto seriamente, mima la traduzione, passando col rosso: “Devi tenè gli occhi sulla strada e le mani sur volante! Tu! Tu te distrai quanno guidi, veh? Te lo dice Jimme, a capito? Nun te devi distrarre! LET IT GO! LET IT GO! DEVI ANNA’!!! Nun devi guardà le vetrine, aaa gente, i semafori…..DEVI ANNA’!!!”

Non me la sono sentita di far crollare le titaniche certezze del tassista in nome della filologia musicale, dicendogli che in realtà il testo dice Let it Roll.  Mentre scendo dal taxi lo immagino sul palco con la sua cover band e il mio pensiero va a tutti quei poveracci del pubblico dalle orecchie sanguinanti, costretti ad ascoltare questo Jim de noantri, con le sue canzoni storpiate e la sua filosofia pragmatica del Devi Annà.

T-shirt Jim Morrison

Miserere in do minore

“David Bowie che sei nei cieli, perdonami perché ho peccato”, sussurro con la testa tra le mani, rivolta agli innumerevoli santini del duca bianco che costellano la mia libreria. Mi sembra quasi che la foto in bianco e nero sull’ultimo ripiano mi strizzi bonariamente l’occhio, quello azzurro, come per dire “C’mon babe, let it out!”. Così prendo coraggio per l’amara confessione e mi inginocchio, metaforicamente però, perchè ho un ginocchio quasi fottuto. Continua a leggere

Non ti vedrò mai più perchè ti ammazzerò

Lo sapevo che non gli dovevo rivolgere la parola, a questo principiante della Ryanair. Voglio solo finire quel genio di Bukowski in pace, per questo mi limito a centellinati sorrisi di circostanza. Ma quel rachitichello over 40 niente, continua a sperare di fare colpo raccontandomi di Londra.

Quando batte le mani al suono della tromba che esulta l’atterraggio in anticipo, lo sto quasi per insultare, ma mi trattengo perché in fondo mi fa pena. Strategicamente, allora, ma solo per farmi tirare giù la valigia sovrappeso, gli dico due sillabe a caso e quello attacca con fare orgoglioso che è stato un giorno e mezzo in vacanza, per la prima volta nella sua vita, a L’ Ondra. Pivello.

Ma il punto più alto lo raggiunge al controllo passaporti quando, col sopracciglio alzato e una presunta aria sexy, mi fa: “Comunque tu sei uguale a Laura Pausini, lo sai, sì?”. Faccio un respiro profondo, gli occhi a fessura e rispondo: “Ah. Quindi sono un cesso”. E me ne vado, senza neanche ucciderlo.

 
Nota: Il titolo di questo post è tratto da Pulp, Charles Bukowski, ed.Feltrinelli, 2003, pag. 122
 

 

 

 

 

L’imperativo categorico del Refresh

Refresh. Refresh. Refresh. Questo l’imperativo categorico dalle 10 di questa mattina, aspettando l’apertura delle vendite per il concerto dei RADIOHEAD a Lione, alle 10.30 in punto. Il mio dito scatta allo scattare del minuto, e mi ritrovo alla 464 posizione in coda. Almeno sono dentro, penso. Aspetta, comanda il sito, non refreshare, aspetta. Ubbidisco. Ore 10.35, la mia posizione è intanto scesa al 350 posto. Continua a leggere

Digressione

Big Eyes

Tim Burton, ti ho amato dal primo momento che ti ho visto al cinema, e ancora di più quando una sera d’estate, vestita come un personaggio di Nightmare before Christmas, ti ho incontrato a Dean street a Londra e ho pronunciato ad alta voce il tuo nome. Ti sei fermato e mi hai sorriso togliendoti gli occhiali da sole viola, e hai trascorso ben 5 minuti del tuo tempo davanti al mio sguardo ebete che ha recepito poco più della metà di quello che hai detto. Beh, dopo quella sera hai realizzato un film peggio dell’altro, dunque ti chiedo pubblicamente scusa per averti strappato via l’ispirazione. Piango lacrime amare dai miei Big Eyes.